Nèfesh, rùach, neshamà: tre parole per esprimere il concetto di anima e spirito nell’ebraico biblico

In ebraico esistono diversi vocaboli per esprimere il concetto di “spirito-anima”, i più conosciuti sono: nèfesh, rùach e neshamà.
La parola spirito, rùach, appare per la prima volta nella Torà nei primi versi di Genesi:
«In principio, Elohim creò il cielo e la terra. La terra era sterminata e vuota, le tenebre erano sulla faccia dell’abisso e lo spiritorùach di Elohim si librava sulla superficie delle acque. Elohim disse: “Sia Luce”. E luce fu» (Genesi 1:1-3).

Il termine nèfesh appare quando Dio disse: «Brulichino le acque di un brulicame di esseri viventi, nèfesh chayà» (1:20). E, infine, neshamà appare nel verso che parla della creazione dell’uomo: «Il Elohim Yahuveh formò l’uomo di polvere della terra, gli ispirò nelle narici il soffio vitale, nishmat-chaiim, e l’uomo divenne essere vivente» (2:7).
Nèfesh, rùach e neshamà esprimono i gradi di vitalità esistenti nella creazione e i diversi livelli dell’anima umana che hanno sede nel corpo. L’energia più alta si concentra nella mente, luogo del pensiero e sede dell’anima elevata, neshamà, mentre rùach, spirito, risiede nel cuore sede delle emozioni e nèfesh, il soffio vitale che anima il corpo fisico è nel fegato. Il significato generalmente attribuito alla parola “anima” non deriva dalla Bibbia ma dalla filosofia e dalla religione greca. Già Platone (e prima ancora orfici e pitagorici) citando Socrate, parla di anima che si separa dal corpo e che, se è pura, si unisce all’invisibile e immortale divino. Siamo nel V a.C. Con la traduzione greca dei LXX siamo al III sec. A. C, in pieno ellenismo. Ciò dimostra quanto la Bibbia non sia un libro facile che basti aprire e leggere. Nell’antropologia biblica i tre termini hanno diverso valore e, purtroppo, nelle religioni vengono confusi. Vediamoli. La parola ebraica nèfesh è una parola fondamentale nell’antropologia della Bibbia. Il lettore italiano la conosce nella sua traduzione di “anima”. La traduzione greca dei LXX la rese con ψυχή (psychè), l’alito di vita, la forza vitale che anima il corpo e si mostra nella respirazione degli animali e degli umani. Così la parola ha finito  per assumere la connotazione datale dalla filosofia greca.


Il fatto che la parola si sia imposta con questo significato spurio si spiega unicamente con il fatto che la prima Chiesa usava quella versione. Come tradurre allora la parola nèfesh? È davvero difficile, perché abbiamo a che fare con il pensiero ebraico. Nel modo di pensare ebraico una parte del corpo era a volte presa per il tutto e viceversa; in più, poteva indicare la funzione. Quando leggiamo del “braccio di EL”, non abbiamo difficoltà a capire che si sta parlando della forza di EL, perché anche nel nostro pensiero il braccio può indicare la forza. Ma quando leggiamo nella Bibbia che la persona saggia ha il cuore a destra, entriamo in confusione. Per capire dovremmo sapere che il cuore è la nostra mente e che la destra era il posto riservato alla persona più vicina al re; solo allora capiamo che si sta dicendo che la persona saggia usa bene la sua mente e che il suo corretto modo di pensare funge da alleato. A quanto pare, non ci resta che tradurre di volta in volta la parola nèfesh con il senso che ha nel contesto. Nelle Scritture Ebraiche la parola nèfesh compare 755 volte e la LXX greca la rende con psychè 600 volte. Il fatto che manchino all’appello 155 passi (in cui la LXX rende ovviamente l’ebraico nèfesh in altri modi) ci dice che già gli antichi avevano rilevato una diversità di significati in molti passi biblici. Nel linguaggio ebraico la parola nèfesh fu usata senza alcun dubbio sin dall’inizio per definire l’essere umano. E con questo significato che appare per la prima volta applicata all’uomo nella Bibbia: “Yahuveh Adonay formò l’uomo dalla polvere della terra, gli soffiò nelle narici un alito vitale e l’uomo divenne nèfesh vivente” (Gn 2:7). La prima volta in assoluto la parola nèfesh appare nella Bibbia è in Gn 1:20, applicata agli animali. Qual è il significato di nèfesh in Gn 2:7? Di sicuro non quello di “anima”. Nèfesh è visto in stretta relazione con la forma complessiva dell’essere umano. La persona non ha una nèfesh: l’essere umano è nèfesh e vive come nèfesh. Occorre sapere che il pensiero semitico considera una parte del corpo assieme alle sue particolari capacità o attività. Questa singola parte del corpo (presa per indicare la sua attività o capacità) a sua volta può essere assunta come segno distintivo di tutta la persona. Occorre quindi esaminare anche le singole parti. Partiamo da questa immagine: “Lo sheòl ha dilatato la sua nèfesh e ha spalancato la gola senza misura”– Is 5:14. Nel classico parallelismo ebraico, qui presente, nèfesh viene ad avere valore sinonimico di “gola”. Infatti è detto che si dilata. Ciò significa che qui nèfesh assume il significato di “gola” o “bocca”. È per questo che Ab 2:5 può riferirsi all’uomo avido definendolo come “colui che ha reso la sua nèfesh spaziosa proprio come lo Sceòl, e che è come la morte e non si può saziare”. Qui nèfesh indica l’organo della nutrizione con cui l’uomo si sazia. Abbiamo visto che la nèfesh come bocca e gola fa riferimento al bisogno dell’uomo: mangiare, bere, respirare, scampare dal pericolo. La parola nèfesh è quindi strettamente connessa anche a nozioni vitali come desiderare, bramare, aspirare, domandare, chiedere.

Da nèfesh come organo specifico del desiderare al senso più ampio di nèfesh come sede anche di altri sentimenti, il passo è breve. Ed ecco allora la nèfesh come sede degli stati d’animo. Es 23:9 istruisce così Israele: “Non devi opprimere il residente forestiero, giacché voi stessi avete conosciuto la nèfesh del residente forestiero, perché diveniste residenti forestieri nel paese d’Egitto”. Intendere qui nèfesh come “le condizioni di vita” è troppo poco. In questo passo possiamo tradurre nèfesh con “animo”, perché qui non si fa riferimento solo alle necessità e ai bisogni del forestiero o alle sue “condizioni di vita”, ma a tutta la scala dei suoi sentimenti collegati al sentirsi estraneo e al temere il pericolo di essere oppresso.
Dal momento che – come si è visto – nèfesh indica la sede delle necessità vitali, senza il cui soddisfacimento la persona non può vivere, ne risulta la nèfesh indica in maniera evidente la vita stessa. Finora abbiamo visto molti casi biblici in cui si dice che l’essere umano ha una nèfesh. Ma ci sono passi in cui la Bibbia dice che la persona è nèfesh. Questo nuovo significato di nèfesh e la differenza con gli altri significati che abbiamo esaminato, viene chiarito soprattutto dal rapporto esistente tra vita e nèfesh. Nelle espressioni in cui si dice che l’essere umano è nèfesh dobbiamo escludere che nèfesh assuma il valore di vita. Quando la Bibbia dice che la persona è nèfesh non si indica ciò che uno ha, ma ciò che è, e a cui la vita viene attribuita. Nèfesh corrisponde al nostro istinto di sopravvivenza e alla nostra fisicità. Secondo l’ebraismo, la nèfesh si identifica così tanto con il corpo perché nasce e termina con il corpo. Non c’è una sola volta, nella Scrittura, un caso in cui si possa tradurre nèfesh con “anima”. I traduttori che scelgono “anima” per rendere nèfesh fanno davvero una scelta dissennata.

RUACH

Rùach designa una forza della natura: il vento; e ciò in ben 113 casi sul totale dei 389 passi (378 in ebraico e 11 in aramaico) in cui il termine ricorre. In secondo luogo, rùach viene riferito più spesso a Dio (136 volte) che agli uomini, agli animali e agli idoli (129 volte). È importante chiarire il senso meteorologico di rùach. Questo termine non significa aria come tale. Significa l’aria mossa. Applicato alle persone, il “vento” (rùach) umano è innanzitutto il respiro. Per questo, non di rado rùach sta in parallelo con neshamàh: “Colui che dà alito (neshamàh) al popolo sulla terra, e rùach a quelli che vi camminano”. – Is 42:5. Ora però dobbiamo considerare che il rùach di Yahuveh significa ancora di più che non il semplice “vento” vivificatore che poi diventa respiro dell’uomo. “Mediante la parola di Yahuveh furono fatti gli stessi cieli, e mediante il ruach della sua bocca tutto il loro esercito”. – Sl 33:6
Rùach sta qui come sinonimo di “parola”: entrambe provengono dalla bocca. In questo caso, tuttavia, rùach è ben più che aria mossa. Il respiro di Yahuveh è forza di vita creativa. Ora si può parlare del rùach come di un’invisibile natura autonoma che non necessariamente è pensata come rùach di Dio, ma che comunque è interamente sottoposta al potere di EL. Abbiamo finora esaminato il sentiero tracciato da rùach che dal respiro conduce allo spirito. È qui che la nostra capacità di cogliere il pieno significato di rùach-spirito incontra una difficoltà, forse dovuta alla parola italiana che scegliamo nella traduzione: “spirito”.

Probabilmente altre non ne abbiamo. Ma occorre capire il senso biblico di questo spirito-rùach. Si tratta dell’organo del conoscere, del capire e del giudicare. Col soffio del respiro va visto innanzitutto il movimento del sentimento. Quando la regina di Saba vide la sapienza di Salomone, il palazzo reale, i cibi, gli inservienti, il loro abbigliamento, gli olocausti nel Tempio, “allora non ci fu più rùach in lei”. – 1Re 10:5
Ciò vuol dire: Allora le si fermò il respiro, perse il suo contegno e il suo autocontrollo. L’assenza di rùach caratterizza lo stato d’impotenza, di incontrollabile stupore. Nel rùach viene rivelato il modo di pensare, la mentalità. Elifaz incolpa Giobbe: “Tu volgi il tuo rùach contro EL stesso” (Gb 15:13), intendendo la sua agitazione, il suo malumore. La LXX, infatti, qui traduce rùach con θυμόϛ (thymòs): “rabbia/ardore/passione”. Ciò che è particolare del rùach umano lo scopriamo partendo dal fatto che rùach significa soprattutto il forte soffiare del vento e l’attività di Adonay che dà vita e potenza. Così rùach non solo è adatto a descrivere i cambi d’umore, ma più ancora ad indicare le energiche azioni della volontà. Rùach è anche, in un senso psicologico, il nostro bisogno di sapere chi siamo, lo sforzo di conoscere e stabilire la nostra identità.

NESHAMÀ

Il neshamàh come contrassegno dell’uomo vivo a differenza di quello morto viene stabilito in Gb 27:3: “Il mio alito è ancora tutto dentro di me, e lo spirito di EL è nelle mie narici”. Quando si racconta del figlio malato della vedova di Sarepta, in 1Re 17:17, si dice che la sua malattia lo aveva talmente spossato che alla fine nessun neshamàh restava in lui, e così subentrò la morte. “Dopo queste cose avvenne che il figlio della donna, la padrona della casa, si ammalò, e la sua infermità fu così grave che non gli restò respiro (neshamàh)”È evidente che qui la parola neshamàh sta ad indicare la vita. Quando non gli resta più respiro, muore. Questo significato di “vita” è chiaro in Gs 11:11: “Colpivano tutte le anime [kol-hanèfesh] che erano in essa col taglio della spada, votandole alla distruzione. Non si lasciò nessuna cosa che respirava” “Cosa che respirava” è un giro lungo per tradurre neshamàh. “Non vi restò anima viva” rende l’idea ma non è letterale. Una buona traduzione potrebbe essere: “Nessuna vita fu risparmiata”, in cui neshamàh assume il significato di “vita”. Neshamàh corrisponde anche alla nostra ricerca e necessità di significato. Abbiamo bisogno di un contesto in cui la nostra identità, conquistata faticosamente, acquisti senso nella scoperta della sua vocazione peculiare. Questo è il livello che deve portarci a considerare le nostre vite come “una realtà superiore”, anche se questa viene sviata e ritardata quando viviamo in un ambiente che fa di tutto per costringerci a continuare a cercare al di fuori di noi stessi.

Autore e fonte: Francescopapallo

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